Antologia > Inconscio collettivo
Smontare l’anima. Gli strani coleotteri che non convincono
“Per
descrivere una realtà vivente si procede anzitutto uccidendola e smembrandola. Allora
si ha la mano piena di frammenti inerti a cui manca solo – purtroppo – ogni
riferimento alla vita”. Non si
potrà mai comprendere il mistero della vita smontando a pezzi un essere
vivente.
1 – Smontare il giocattolo.
Vorrei iniziare con una citazione di Mefistofele, nel Faust:
“Per descrivere una realtà vivente si procede anzitutto uccidendola e smembrandola. Allora si ha la mano piena di frammenti inerti a cui manca solo – purtroppo – ogni riferimento alla vita”.
Non si potrà mai comprendere il mistero della vita
smontando a pezzi un essere vivente. In effetti i materialisti vorrebbero
farlo, a imitazione di un bambino che smonta il giocattolo per capire come
funziona. Con il giocattolo si può, perché il mistero risiede banalmente in
qualche molla o ingranaggio interno allo stesso. Il mistero della vita, invece,
non è interno alla creatura: proviene dall’esterno, da un luogo non-locale.
Similmente, non si può smontare un’anima, per capire cosa c’è
dentro. Naturalmente, con “anima” intendiamo una personalità, una interiorità,
insomma quel complesso di sensazioni, esperienze, gioie e dolori, ricordi e
speranze che appartiene a ciascuno di noi, diciamo la psiche.
La psicologia tenta di indagare il contenuto di questo pozzo
oscuro con diversi metodi. Nella sostanza però, il procedimento potrebbe esser
sempre lo stesso: isolare (smontare) ogni singola emozione e metterla sotto la
lente dell’analisi clinica per comprenderne il contenuto.
Il metodo non può funzionare. Per capire il motivo
immaginiamo l’anima come una trama sottilissima dove tutte le parti si agitano,
si accavallano, si uniscono o si dividono. Trasferiamo questa condizione in una
immagine poetica: un prato fiorito. Ecco, immaginiamo l’anima come una grande
distesa fatta di fili d’erba, fiori, arbusti granelli di terra, radici,
insetti, e quant’altro può far parte di un prato.
Trattandosi di un’anima immateriale, tutte le parti non hanno
realmente sostanza, sono talmente piccole da essere impalpabili, invisibili
alla vista.
Se vogliamo analizzare le parti di questo prato ideale,
dobbiamo procedere come si farebbe in laboratorio per esaminare una particella
elementare.
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2 - Il
principio di indeterminazione di Heisenberg
Vediamo cosa accade in fisica quantistica se si vuole
“misurare” una particella. Nella realtà macroscopica (per esempio, quando si
vuole “misurare” un’ameba) la si mette su un vetrino, la si irrora con un mezzo
di contrasto e la si illumina fortemente con la luce dell’apparecchio. Il
risultato che appare è un corpuscolo colorato con un colore che non gli
appartiene, trasparente di una trasparenza che non gli appartiene, ma comunque
un’ameba. Fatta la tara dei mezzi d’indagine, sappiamo che cosa è.
Però, se vogliamo esaminare una particella elementare, per
esempio un fotone, entra in gioco il principio d'indeterminazione di Heisenberg.
Che significa? Che il fotone è troppo piccolo rispetto alla grossolanità degli
strumenti di indagine. Il fotone, che è un quanto di luce, per essere osservato
viene “travolto” dalla luce dello strumento. Cioè, lo strumento deforma
l’oggetto che si vorrebbe osservare. Sicché, quel fotone sfugge alla
possibilità di essere controllato.
In effetti, sappiamo che il fotone non è una “pallina” che sta
in un determinato posto e si muove a una determinata velocità. Non sappiamo
esattamente dove sia quel fotone. Diciamo che si trova in una situazione
probabilistica, cioè potrebbe essere qui, o lì, o in un altro posto
contemporaneamente: è la legge degli stati sovrapposti. Quando non lo
osserviamo, il fotone è contemporaneamente in una vasta quantità di stati
possibili.
Quando lo sperimentatore decide di osservarlo, gli usa
violenza, per i motivi descritti in precedenza, Allora, si dice che il fotone
“collassa” e si cristallizza in una determinata posizione. Perde il suo stato
probabilistico, quindi diventa qualcosa di diverso.
Se riesco a spiegarmi, quando osserviamo un fotone o un
elettrone o un’altra particella elementare quello che risulta ai nostri
strumenti non è esattamente quella particella, ma un’altra cosa.
Tanto più se ripetiamo la misurazione, ogni volta la
particella collassa in una delle posizioni probabilistiche occupate in
precedenza, quindi se osserviamo più volte la stessa particella, ogni volta
questa particella si mostra come una cosa diversa da tutte le precedenti.
Si dice che l’osservatore determina la realtà.
3 - L’anima come una nube quantica
Ora, trasferiamo il concetto di osservazione all’anima.
L’anima, che abbiamo immaginato come un prato, può essere paragonata a una
grande nube quantica, fatta di particelle assolutamente più piccole degli
elettroni o dei fotoni. Tutte le particelle di questa nube sono onde che
vibrano in infinite posizioni probabilistiche. Per “osservarle” occorre farle
collassare in posizioni ben definite. Ma ci riusciremo?
Se utilizziamo i mezzi che la Creazione ci ha messo a
disposizione, si. La nostra fantasia, la nostra coscienza, probabilmente la
nostra volontà possono interferire sulla nube facendo collassare le varie parti
nelle posizioni congeniali allo “strumento” di osservazione, senza che lo
strumento ne stravolga la natura, perché anche lo strumento è psichico e,
secondo il pensiero di Jung, è “consubstanziale” alla parte osservata.
Ma se un osservatore esterno (per esempio, uno psicologo)
prova a isolare una parte dell’anima per osservarla, questa influenza esterna
sarà talmente grossolana da stravolgerne completamente l’essenza. Quella parte
collasserà inesorabilmente in un’altra cosa.
Per esempio, una margherita potrebbe mostrarsi come un
coleottero. Allora Sigmund Freud potrebbe dire che quel coleottero, (un
mostriciattolo fuori posto), è un desiderio sessuale represso, in omaggio alla
sua teoria secondo cui tutto nell’essere umano non è altro che una appendice
degli strumenti sessuali principali. Ma non era un coleottero!
Invece Carl Jung direbbe che quel coleottero è un simbolo di
una rinascita spirituale, in omaggio alla teoria secondo cui nell’inconscio
risiedono gli archetipi ereditati dai miti più antichi.
Magari attraverso più osservazioni si osserverebbero fiori,
insetti, strane creature, profumi e sapori, che sarebbero solo “altre cose”
rispetto alla realtà, e alla fine si concluderebbe che l’anima osservata
contiene una zuppa fatta di questa improbabili “altre cose”.
Quanto lontana la realtà!
Parafrasando Mefistofele, possiamo dire che ogni tentativo di
indagare l’anima “produce una mano piena di frammenti inerti a cui manca solo –
purtroppo – ogni riferimento all’anima”.
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